Ci sono soldi che gli italiani non sanno spendere. Sono quelli per i quali è richiesta una rendicontazione rigorosa. A volte troppo rigorosa? Forse, ma se i soldi sono pubblici – e in particolare vengono dall’Europa – un minimo di attenzione è richiesta. Dovrebbe essere cura del governo italiano, e delle amministrazioni che ne fanno uso, accompagnare i destinatari delle risorse per aiutarli a utilizzarle. Due situazioni diverse, la stessa “impasse”. La prima riguarda l’ormai consolidata incapacità di attingere ai Fondi europei di coesione, quelli che per qualcuno potrebbero essere barattati con il piano europeo di riarmo. Certo, non vederli utilizzati per quello che dovrebbero e potrebbero – favorire investimenti delle Pubbliche amministrazioni per trasferire innovazione laddove sembra più lontana, sviluppo sostenibile, energia, ambiente, reti di trasporto – rende meno resistente l’opposizione di chi dubita sulla liceità di un così radicale cambio di destinazione.
Il pacchetto 2021-2027 conta poco meno di 75 miliardi di finanziamenti. A oggi risultano impegnati solo 12,6 miliardi: 3,4 miliardi i pagamenti eseguiti. I ritardi maggiori sono stati accumulati dai Programmi nazionali, gestiti cioè direttamente dai ministeri e dalle Regioni del Centro-Sud (Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna, Sicilia). Nel pacchetto totale composto da 48 programmi, 11 sono di competenza di amministrazioni centrali: in questi casi, i pagamenti riguardano appena il 2,5% della disponibilità, ma in 7 casi (quelli che fanno capo ad altrettanti ministeri) i risultati sono ancora inferiori, restando fermi all’1%. Un fallimento. C’è chi si appella alla sovrapposizione del Pnrr come fattore di rallentamento. Come dire: troppe risorse tutte insieme, le nostre strutture tecnico-amministrative non sono in grado di fare tanti piani e programmi tutti insieme. E non è una bella notizia per l’efficienza della Pubblica amministrazione.
Ma anche dove potrebbe scendere in campo il privato, l’intermediazione pubblica non aiuta. E frena. Si tratta della seconda situazione di “impasse” che registra il nostro Paese. In questo caso, il programma di aiuto riguarda – meglio, riguarderebbe – la manifattura italiana. È il fantomatico piano “Industria 5.0”, o se preferite “Transizione 5.0”. Insomma, il piano di incentivi per gli investimenti delle aziende nella transizione digitale ed energetica. Un totale di 6,3 miliardi messi a disposizione dall’Europa per favorire l’innovazione delle imprese italiane. Il programma era stato predisposto a fine 2023. A inizio 2025, risultano prenotati solo 500 milioni di crediti di imposta, l’8% del totale. Colpa delle imprese? No: ancora responsabilità dell’Amministrazione pubblica. In questo caso, diremmo del governo che non è riuscito a tracciare una strada certa e sicura per guidare la via degli investimenti privati. Dalla fine del 2023 si sono accumulate centinaia di Faq (il solito riassunto di domande e risposte frequenti) sul sito del ministero del Made in Italy (acronimi e titoli in inglese per le attività che si svolgono a sud delle Alpi, chissà perché) ma sono solo aumentate le incertezze e le spese che le imprese hanno rivolto ai consulenti in cerca di risposte alle domande indispensabili, più che frequenti.
Il ministro Adolfo Urso, in vista dell’ultima Legge di Bilancio, nello scorso mese di dicembre, aveva dichiarato – lo fa spesso – che tutto era risolto, per semplificare le procedure delle imprese, per richiedere gli aiuti previsti. Lo slogan era: più tempo, incentivi più ricchi e (un po’) meno burocrazia. Non è stato così. Peccato che tutto debba concludersi entro il 31 dicembre di quest’anno. Poco meno di 10 mesi di tempo, a fronte del 92% di risorse ancora da collocare.
Un altro fallimento, certificato dall’ennesima comunicazione del governo che in questi giorni ha aggiunto incertezza al disorientamento: la metà delle risorse previste da “Industria 5.0” sarà “riprogrammata altrove”. Lo ha annunciato pochi giorni fa il ministro per gli Affari europei, il Pnrr e le politiche di Coesione, Tommaso Foti. Dopo le vane rassicurazioni di fine anno di Urso, ora tocca a un suo collega di esecutivo aggiungere confusione e congelare ogni velleità di investimento. Foti ha voluto spiegare che si tratterebbe di fondi riprogrammati all’interno dello stesso capitolo, cioè a favore delle imprese. Ma sul come e sul quando resta la stessa immutabile incertezza. Proprio quello che ci vuole a chi fa della programmazione e della certezza la sua necessità di impresa.
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