Non c’è innovazione senza relazione


Un piano B è un piano di innovazione. Ma di quale innovazione si tratta? Parlare di innovazione non significa soffermarsi solo sugli aspetti tecnici, ma comprendere la sostanza di un cambiamento.

Questo tema si fonda su una premessa antropologica: il riconoscimento di una natura che fiorisce nella relazione. Questa premessa non è neutra rispetto all’innovazione: o è sociale e relazionale, oppure non è innovazione. Il paradigma relazionale di cui parliamo non è un elemento estetico, compassionevole o riparatore dell’innovazione, ma un fattore istituente e trasformativo, in grado di cambiare le regole del gioco. La differenza si osserva dopo, ma si crea prima!

Il rischio è continuare a giocare con regole che fanno vincere sempre gli stessi. Come passare, allora, da un piano A a un piano B? L’innovazione è metodo, è strada e richiede una postura relazionale. Analizziamolo attraverso le caratteristiche distintive.

1. Dall’invenzione all’innovazione: la centralità di politiche che abilitino un processo relazionale

Se è vero che il Made in Italy affonda le sue radici nelle grandi invenzioni del passato – da Leonardo in avanti – è altrettanto vero che il futuro si giocherà sulla capacità di innovare. Secondo i dati aggiornati al 2024, l’Italia destina circa l’1,4% del prodotto interno lordo (Pil) alla ricerca e sviluppo, un valore ben al di sotto della media europea (circa il 2,3%).

Innovare non significa semplicemente creare “cose nuove”: occorre che siano fruibili, adottabili e che abbiano un impatto chiaro. Invenzione e innovazione sono due concetti distinti ma strettamente connessi. Tuttavia, in Italia, il divario tra i due è evidente.

  • Come inventore, il nostro Paese è ai vertici in Europa per numero di brevetti: ogni anno vengono depositate circa 5mila domande (la prima legge sui brevetti fu emanata a Venezia nel 1474).
  • Come innovatore, l’Italia si classifica solo al 16° posto su 34 nell’Eu Global Innovation Index e al 24° posto nel Global Innosystem Index 2024 di Ambrosetti, su 37 economie ad alta performance.

Il problema strutturale risiede nella difficoltà di creare sistemi, reti ed ecosistemi capaci di accompagnare l’invenzione fino all’innovazione. Questa incapacità si riflette anche sull’attrattività del Paese: per ogni giovane che arriva in Italia da un Paese avanzato, otto italiani fanno le valigie e vanno all’estero. Un piano B per l’innovazione deve quindi occuparsi non solo delle risorse e degli investimenti, ma anche di strategia, orientamento e relazioni sistemiche. L’innovazione è un processo collettivo.

2. Superare il riduzionismo di una competitività misurata in termini estrattivi

L’innovazione è spesso confusa o identificata esclusivamente con il digitale. Ma parlare di digitale non significa automaticamente parlare di innovazione, così come innovare non coincide solo con il progresso tecnologico. Il progresso deve essere un avanzamento verso il bene comune. Ma chi decide cosa sia il “meglio”? E per chi lo è?

Un’innovazione fondata su un paradigma relazionale affronta il tema delle disuguaglianze fin dall’inizio. Dove va il valore generato? Il fine dell’innovazione non è l’exit, ma la creazione di valore. Tuttavia, nel tempo, si è consolidata una visione che ha reso questi due concetti quasi sinonimi. Una vera tragedia. È tempo di superare una visione estrattiva dell’innovazione. La competizione, nel suo significato originario, deriva dal latino cum petere, ovvero “andare insieme verso”. Al contrario, il modello attuale del winner takes it all ha effetti devastanti, come dimostra il modo in cui si sviluppano le città, cannibalizzando e desertificando territori. L’innovazione sociale cambia le regole del gioco: trasforma la società, l’economia e le politiche. Ma può farlo in meglio – come dimostrano le esperienze di cooperazione sociale – o in peggio.

Come misuriamo il vero impatto dell’innovazione?
Se utilizziamo indicatori sbagliati, rischiamo di perdere di vista la reale trasformazione. Non bastano metriche su investimenti e acceleratori: servono misure di impatto sociale.

3. L’innovazione ha bisogno di un ambiente: luoghi e conoscenza condivisa

L’innovazione non è un fenomeno astratto: ha bisogno di spazi e territori che la rendano possibile. Troppo spesso il territorio è visto solo come un contenitore di investimenti, con l’idea che la conoscenza possa insediarsi e produrre sviluppo in modo quasi automatico. Ma l’innovazione richiede un’ecologia territoriale.

L’economista Giacomo Becattini parlava di coscienza di luogo: la consapevolezza della propria identità territoriale genera valore. “La produzione è un fatto sociale, basato sulla cooperazione tra i soggetti”. L’innovazione sociale, dunque, non può esistere senza il coinvolgimento della conoscenza collettiva e un co-investimento territoriale.

Produrre innovazione richiede processi partecipati, distribuiti e radicati nei territori. La dimensione territoriale non è solo una questione geografica o amministrativa, ma un’ecologia dei soggetti. Serve una biodiversità di attori dove l’economia sociale, il capitale sociale l’investimento culturale hanno un ruolo imprescindibile.

4. Il Piano B per un’innovazione sostenibile è possibile se diventa desiderabile

Un piano B per l’innovazione non significa rinunciare alle tecnologie digitali o all’intelligenza artificiale, ma riconsiderarle in una prospettiva di razionalità sociale. Non basta rendere il futuro più efficiente: deve essere più giusto e felice. L’innovazione si misura tanto con l’utilità quanto con la felicità. Come diceva Aristotele, si può essere massimizzatori di utilità in perfetta solitudine, ma non si può essere felici da soli. Un vero piano B sarà possibile solo se metteremo al centro la relazione. E questo cambiamento sarà davvero realizzato solo quando diventerà desiderabile.

L’innovazione sociale non è solo una strategia, ma un modo di ridefinire le regole del gioco. Il Piano B non è un’opzione di riserva, ma un’alternativa radicale alla visione dominante. Il futuro si costruisce attraverso politiche che favoriscano processi relazionali, superando il riduzionismo tecnologico, valorizzando i territori e ripensando i modelli di competitività. L’innovazione non è solo una corsa al profitto: è un processo collettivo che può generare un cambiamento buono ossia desiderabile e sostenibile.

Quella che avete appena letto è la traccia dell’intervento che Paolo Venturi, direttore di Aiccon, ha tenuto all’evento “L’individuo (da solo) non esiste!”.

Credit foto Pixabay

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