Le fatture relative a lavori mai eseguiti connessi al c.d. “bonus facciate” possono essere contestate sia agli amministratori, quale reato tributario ai sensi dell’art. 8 del DLgs. 74/2000, sia alla società stessa, in forza dell’art. 25-quinquiesdecies del DLgs. 231/2001.
Così la sentenza n. 10400, depositata ieri dalla Cassazione, si pronuncia su un sequestro preventivo di diversi milioni di euro finalizzato alla confisca del profitto del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Tale reato era qui contestato agli amministratori, di fatto e di diritto, di una srl, perché, agendo in concorso tra loro al fine di consentire a terzi l’evasione di imposta mediante l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti, avevano emesso sia fatture per operazioni (altrettanto) inesistenti relative a lavori mai eseguiti, sia, attraverso il successivo inserimento del credito di imposta nel portale dell’Agenzia delle Entrate, documenti aventi valore analogo alle fatture per operazioni inesistenti. In particolare costoro, insieme con il committente dei lavori, nei modelli di comunicazione di cessione del credito trasmessi telematicamente all’Agenzia delle Entrate attraverso la procedura “web” denominata “Piattaforma Cessione Crediti”, avevano indicato cessioni di crediti fiscali inesistenti relativi al c.d. “bonus facciate” al fine della loro successiva cessione a terzi e/o detrazione ai fini fiscali ai sensi dell’art. 121 del DL 34/2020 (decreto Rilancio).
Secondo i giudici, la srl rappresentava una società “fantasma” che, attraverso la predisposizione di documentazione falsa, utile ad attestare lavori in realtà mai eseguiti, nonché attraverso la simulazione di operazioni finanziarie, ha permesso, in concorso con i propri clienti committenti, la generazione di crediti d’imposta fittizi derivanti da una serie di cessioni per 13.532.586,30 euro complessivi, di cui euro 12.022.277 derivanti dalla prima cessione (esclusivamente per “bonus facciate”) ossia da clienti diretti della società, e 1.510.309,30 euro derivanti da cessioni successive, crediti d’imposta (superbonus 110%, bonus facciate, bonus ristrutturazioni ed ecobonus) acquistati da soggetti-impresa che a loro volta li avevano precedentemente acquistati da terzi.
La società, secondo gli accertamenti compiuti dal Tribunale, era in realtà priva di una propria struttura logistico-amministrativa, di una propria forza lavoro e di una struttura economica-patrimoniale, tali da poter far fronte alla realizzazione dei lavori di edilizia di ingente valore; una società, dunque, assolutamente priva dei mezzi, di dotazioni e del personale idonei a eseguire i lavori oggetto delle fatture emesse nei confronti dei committenti per un imponibile superiore a 12.000.000 di euro nell’arco di soli tre mesi.
Secondo lo schema accusatorio, i legali rappresentanti si erano accordati con i proprietari degli immobili oggetto dei lavori fatturati per generare crediti di imposta inesistenti comunicati alla Agenzia delle Entrate, ai fini della loro successiva utilizzazione o ulteriore cessione. Le fatture emesse dalla srl erano dunque finalizzate a consentire ai singoli committenti il riconoscimento di un inesistente credito di imposta, il quale, invece di essere utilizzato direttamente dal contribuente a compensazione del proprio debito di imposta, veniva ceduto alla società emittente a titolo di corrispettivo per lavori mai eseguiti.
Il che – secondo la Cassazione – è perfettamente compatibile con la fattispecie descritta dall’art. 8 del DLgs. 74/2000, che, nel fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, comprende anche quello di consentire a terzi il riconoscimento di un inesistente credito di imposta (Cass. n. 42417/2019).
Per la sussistenza di tale reato è, infatti, sufficiente il fine di far conseguire a terzi il credito di imposta, mentre non è necessario che il credito venga poi effettivamente riconosciuto e accettato dal debitore ceduto (e cioè dall’Agenzia delle Entrate). Non è peraltro nemmeno necessario sostenere l’equivalenza della comunicazione all’Agenzia alla fattura (“documento analogo” ai sensi dell’art. 1 del DLgs. 74/2000) quando il fatto è stato consumato, come nel caso di specie, proprio mediante l’emissione della fattura stessa.
Da un lato – alla luce delle ragioni qui sintetizzate e più dettagliate nelle motivazioni della sentenza – sussistono, dunque, i presupposti per la contestazione dell’illecito penal-tributario. Dall’altro, tuttavia, la Cassazione annulla la decisione del Tribunale delle libertà relativamente ai presupposti del sequestro preventivo in quanto le ragioni del provvedimento appaiono maggiormente conformi a quelle di un sequestro impeditivo decretato ai fini del comma 1 dell’art. 321 c.p.p. piuttosto che ai fini della confisca obbligatoria del profitto del reato ai sensi degli artt. 12-bis del DLgs. 74/2000 e 321 comma 2 c.p.p. In altre parole, le motivazioni del sequestro attengono qui principalmente al rischio della circolazione dei crediti fittizi mediante la loro compensazione o ulteriore commercializzazione, mentre per ordinare il sequestro preventivo (anticipatorio della confisca) è richiesta al giudice una motivazione specifica.
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