Crowfunding di guerra. Le nuove vie della finanza – Sbilanciamoci


L’allineamento tra il settore finanziario e l’industria della difesa è sempre più evidente. Il riarmo diviene con Rearm Europe un’opportunità di investimento a basso rischio, alimentata da soldi pubblici e agevolazioni normative. L’accesso ai capitali privati ne diventa un pilastro, inclusi i fondi pensione.

Che sta succedendo in Europa? Davvero ci stiamo preparando a una guerra contro Putin e nel frattempo ci riarmiamo per renderci “autonomi” dagli Stati Uniti di Trump? Quali saranno le prossime scelte politiche dei governi e di Bruxelles? E quanto contano in questo gioco di morte gli interessi economici dell’industria degli armamenti e della grande finanza che pregusta il nuovo affare del secolo? Non abbiamo la pretesa di rispondere in modo esaustivo a queste domande con le informazioni a nostra disposizione, ma per tentare di individuare dietro il fumo del teatrino mediatico qualche tendenza di fondo vi proponiamo alcune suggestioni e una breve rassegna di notizie che sono state sottovalutate (o occultate) dai media. 

Tra tutti un dato ci sembra comunque assodato. Per finanziare il riarmo proposto da Ursula von der Leyen ci vogliono tantissimi soldi e le casse dei singoli Stati nazionali ne sono sprovvisti. La discussione è ora sull’aumento della percentuale di Pil destinata all’acquisto di armi, ma la molla del debito non si potrà forzare più di tanto e non si potrà spingere alle estreme conseguenza la redistribuzione interna della spesa pubblica. Allora ecco che spunta l’idea di andare a pescare nella grande cassaforte del risparmio privato delle famiglie e del capitale circolante. Una via che pare prendere corpo soprattutto in Italia dove il governo è in grande difficoltà nella gestione del debito e deve fare i conti con spaccature politiche pesanti anche al suo interno. Ma cominciamo la nostra carrellata.

Oro alla Patria

Il 18 dicembre 1935 fu celebrata in tutta l’Italia la “giornata della fede”. Era necessario finanziare la guerra di Etiopia dichiarata in ottobre da Benito Mussolini, che non aveva però a disposizione tutte le risorse pubbliche necessarie all’immenso sforzo bellico in un momento di grave difficoltà del bilancio dello Stato e dell’economia nazionale. Lo storico Emilio Gentile, nella sua voluminosa Storia del fascismo, racconta quel giorno a Roma. In piazza Venezia, davanti all’Altare della Patria, si celebrò la cerimonia ufficiale alla quale prese parte anche la regina, Elena del Montenegro, nata Jelena Petrović-Njegoš, moglie di re Vittorio Emanuele III di Savoia. “Per ore – scrive Gentile – sotto una pioggia incostante ma torrenziale, una lunga fila di donne in nero, la maggior parte vestita poveramente, sfilò per deporre le fedi nuziali nell’urna, mentre nuvole d’incenso si levavano da grandi torce al suono di una musica lenta e cadenzata simile ad una marcia funebre”. (Gentile, p.1068)

La storia non si ripete mai uguale a sé stessa ed è sempre sbagliato avanzare paragoni tra fatti e periodi diversi. Abbiamo ricordato questo episodio della storia del fascismo non tanto per proporre delle similitudini ma per sottolineare un dato che nella storia delle guerre si è sempre ripetuto: la questione delle risorse, il problema di chi ci mette i soldi nelle imprese folli dei re e dei dittatori. La cerimonia di piazza Venezia non è rappresentativa dell’opinione pubblica italiana di quel periodo. Si è trattato di un fenomeno pompato dal regime e utilizzato dalla propaganda. Ci sono state però tante persone, in particolare donne anche appartenenti ai ceti popolari più poveri, che hanno abboccato all’amo e hanno donato le loro fedi d’oro in cambio di fedi di ferro. Un investimento sbagliato che ha prodotto solo violenza e morte. Oggi la guerra è tornata all’ordine del giorno e anche nell’Europa che ha goduto di un lungo periodo di pace dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo ritorna un’aria plumbea. Gli europei non credono più alla pace e alla politica come soluzione dei conflitti?

Il sondaggio

Con le dovute accortezze nell’uso politico, spesso strumentale, della sondaggistica e delle statistiche, ci ha colpito una ricerca commissionata dalla rivista di geopolitica Le Grand Continent. Il sondaggio è stato condotto su un campione di 10.572 persone provenienti dai nove maggiori Paesi dell’Ue (Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia, Romania, Paesi Bassi e Belgio), oltre alla Danimarca. Si tratta di un campione che secondo la società che lo ha realizzato sarebbe rappresentativo di circa due terzi della popolazione dell’Unione europea. Gli europei temono lo scoppio di un conflitto armato sul territorio dell’Ue: sarebbe questo il primo riscontro del sondaggio, secondo cui una maggioranza abbastanza netta (55% contro 40%) considera “alto il rischio di un conflitto armato all’interno dell’Unione Europea nei prossimi anni”. Dalle risposte dei cittadini europei trapela la formazione di un nuovo tipo di antiamericanismo nell’epoca Trump. Il 70% degli intervistati ritiene infatti che “l’Unione europea debba fare affidamento esclusivamente sulle proprie forze per garantire la propria difesa e sicurezza”, rispetto ad appena il 10% che ritiene che “l’Unione europea possa fare affidamento sugli Stati Uniti di Donald Trump per garantire la propria sicurezza e difesa”. Questa è l’opinione maggioritaria nei 9 Paesi presi in esame, anche in Paesi come la Polonia, la Romania e l’Italia, dove la diffidenza verso il trumpismo sembra meno pronunciata. In ogni caso perfino la Nato sta crollando nella fiducia degli europei: solo il 14% pensa sia uno strumento ancora utile. 

Sul riarmo gli europei, sempre secondo il sondaggio commissionato da Le Grand Continent, sono nettamente divisi, anche se si starebbe formando una maggioranza relativa che ritiene urgente aumentare la spesa per la Difesa fino ad un massimo (ma sarebbe un obbrobrio) del 5 per cento del Pil. Per fortuna una grossa fetta degli ascoltati per il sondaggio non ha subito (ancora) l’ubriacatura e ritiene che “ci siano altri settori di spesa più urgenti della difesa”. Tra i Paesi più “guerrafondai” troviamo la Polonia e naturalmente l’Ucraina. Noi italiani, almeno in questo sondaggio, ci siamo distinti positivamente: il 62 per cento dei connazionali pensa che “ci siano altre cose più urgenti per cui spendere soldi”. 

Una politica subalterna

“L’Unione europea si trova in un momento di svolta in cui il mantenimento dello status quo non è più un’opzione di fronte alle minacce e agli attacchi alla sicurezza europea”. Lo hanno affermano gli eurodeputati nella risoluzione sul Libro bianco della difesa approvata con 419 voti a favore, 204 contrari e 46 astensioni. Nel testo (non vincolante), il Parlamento invita l’Ue ad agire con urgenza per garantire la propria sicurezza. Ciò significa, secondo i deputati, rafforzare le relazioni con i Paesi che condividono gli stessi principi. Il Parlamento sostiene dunque il piano ReArm Europe proposto dalla Commissione, e chiede di verificare la possibilità di introdurre un sistema di obbligazioni europee per finanziare investimenti militari su larga scala e di fare ricorso ai “coronabond” inutilizzati, a integrazione del ReArm Europe. Inoltre, nel testo adottato, si invita la Banca europea per gli investimenti (Bei) a investire più attivamente nell’industria europea della difesa grazie all’abolizione delle restrizioni al finanziamento della difesa, nonché alla possibilità di emettere debito a destinazione vincolata. Anche in questo caso, purtroppo, la sinistra italiana non è riuscita a fare squadra. Il Pd si è spaccato: dieci deputati del Partito democratico hanno votato Sì, mentre 11 componenti della delegazione Dem si sono astenuti. Contrari invece Avs e Cinque Stelle, secondo cui il voto sul riarmo ha rappresentato “una pagina nera per la democrazia europea”.

L’Olanda dice no

La Tweede Kamer, la Camera bassa del Parlamento olandese, ha appoggiato una mozione che indica il disappunto per la proposta ReArm Europe nella sua forma attuale e invita i Paesi Bassi a ritirarsi dal piano. La mozione afferma che “i Paesi Bassi sono fondamentalmente contrari ai prestiti europei congiunti e che la spesa per la difesa deve rimanere una risorsa nazionale”. La mozione contro la partecipazione olandese a ReArm Europe è stata approvata da una maggioranza di 73 voti favorevoli e 71 contrari, su un totale di 150 membri della Tweede Kamer. Mentre il premier Dick Schoof si è dichiarato favorevole al piano, così come il partito Vvd, mentre i partner di coalizione – Pvv, Bbb e Nsc – hanno votato a favore della mozione che si oppone al proprio governo.

Un commissario speciale per l’industria bellica

Ma i dirigenti europei vanno avanti come treni (verrebbe da dire come carri armati). Una decisione chiarisce meglio di tanti discorsi il vero intento della politica europea: favorire l’industria delle armi. Nel secondo mandato di Ursula von der Leyen alla Commissione europea, è stata introdotta una nuova figura con la nomina del commissario per la Difesa e lo Spazio. Questo incarico mira ad affrontare le sfide europee relative all’industria della difesa e alla gestione dei progetti spaziali dell’Unione Europea. L’introduzione di questa nuova carica segna un passo significativo per l’Europa che sta vivendo una fase di continua trasformazione dal 2022 con l’inizio delle ostilità in Ucraina e l’adozione della Bussola Strategica. In seguito all’audizione del lituano Andrius Kubilius al Parlamento europeo il 6 novembre, è stata confermata la sua nomina come commissario europeo per la Difesa e lo Spazio. Tra le principali responsabilità compare per primo il compito di rilanciare gli investimenti e la competitività dell’industria europea della difesa per raggiungere un maggiore grado di sviluppo in termini di capacità. Il mandato include anche il completamento del nuovo programma europeo di investimenti per l’industria della difesa (European Defence Industry Programme – Edip), con l’obiettivo di incrementare la produzione di armamenti attraverso una stretta collaborazione tra i Paesi produttori. Per il triennio 2025-2027 sono stati stanziati 1,5 miliardi di euro al fine di sostenere questa iniziativa in un contesto di crescente preoccupazione verso il futuro dell’Unione Europea.

La via italiana al riarmo

Il piano del governo Meloni, in grande difficoltà sullo scacchiere della politica internazionale e diviso al suo interno (Salvini è nettamente contrario al riarmo di Ursula von der Leyen) sulle armi, prevede investimenti privati. E una via d’uscita suggerita dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Alla Camera, è stata la premier Giorgia Meloni a ribadire la volontà di difendere l’interesse nazionale prevedendo il coinvolgimento degli investimenti privati, sostenuti da garanzie europee, per finanziare la corsa agli armamenti senza gravare sul debito pubblico. Si tratta di una strategia definita “più sostenibile”, che però ha sollevato già una valanga di critiche. Aprire la difesa comune europea al capitale privato significa anche creare un ecosistema industriale e finanziario fortemente incentivato dal profitto generato dalla produzione di armi. Una dinamica che ricorda i modelli di economia di guerra, in cui il riarmo stesso diventa non solo una scelta politica ma anche un’opportunità di investimento. 

Nasce la Banca europea per le armi

Secondo il rapporto “Finanza di pace. Finanza di guerra”, presentato l’anno scorso dalla Fondazione Finanza Etica, oltre 959 miliardi di dollari vengono destinati dalle istituzioni finanziarie nel mondo al sostegno della produzione e del commercio di armi. Ma evidentemente in questo periodo di mobilitazione bellica non basta più quello che fanno le banche tradizionali. Per questo è nata la Defence, Security, and Resilience Bank (DSR), una banca pensata per colmare il divario finanziario che ostacola la difesa collettiva in Europa, garantendo liquidità ai produttori di armamenti. Ovvero soldi pubblici per chi costruisce armi. L’iniziativa di cui solo alcuni media hanno parlato (La Notizia l’ha invece rilanciata) è promossa da Rob Murray, ex capo dell’innovazione della Nato, e sostenuta da figure di spicco come Lord Stuart Peach, parte con 100 miliardi di sterline garantiti dagli Stati azionisti. Emettendo obbligazioni con rating AAA, la banca riduce il costo del credito per l’industria della difesa, assicurando finanziamenti stabili, indipendentemente dai cicli politici ed economici. Perché la guerra, si sa, non conosce crisi.

L’industria della difesa come nuova frontiera

L’allineamento tra il settore finanziario e l’industria della difesa è sempre più evidente. Gli investitori vedono nella produzione di armamenti una garanzia di rendimenti sicuri, mentre i governi favoriscono l’integrazione tra capitale privato e strategia di sicurezza. Le banche finanziano le bombe, i governi si adeguano. Il riarmo non è più solo un imperativo strategico, ma un’opportunità di investimento a basso rischio, alimentata da fondi pubblici e agevolazioni normative. Se la pace non fa profitto, tanto vale armarsi. L’industria della difesa ottiene finanziamenti certi, mentre altri settori restano soggetti ai vincoli di bilancio. I soldi per la scuola o la sanità si trovano “se ci sono le risorse”, per la guerra invece si creano. L’accesso ai capitali privati diventa un pilastro della nuova strategia, rendendo il settore militare autonomo rispetto ai cicli politici e fiscali. Le aziende della difesa possono così pianificare investimenti di lungo periodo, costruendo un’infrastruttura produttiva sempre più scollegata dalle dinamiche di bilancio nazionali.

Armi, la bolla europea della finanza speculativa 

L’improvviso aumento di interesse per le piccole azioni europee arriva mentre gli annunci irregolari sui dazi del presidente Donald Trump hanno sconvolto i mercati azionari statunitensi nelle ultime settimane, alimentando le preoccupazioni circa il rallentamento della crescita economica nella più grande economia del mondo. Secondo notizie riportate dal Financial Times, le azioni europee sono state tra i principali beneficiari della conseguente “rotazione” degli investitori dalle azioni statunitensi, con le prospettive della regione ulteriormente rafforzate dai piani della Germania di incrementare la spesa militare e rinnovare le sue infrastrutture. A differenza degli Stati Uniti, che hanno una divulgazione limitata sulle posizioni allo scoperto, gli hedge fund e altri investitori devono dichiarare quando hanno venduto allo scoperto più dello 0,5% delle azioni di una società nell’Ue e nel Regno Unito, rendendo più facile per i trader al dettaglio prendere di mira le posizioni di un fondo. L’anno scorso Eutelsat aveva quasi il 100 percento delle sue azioni in prestito, un indicatore di interesse allo scoperto, prima che questa percentuale scendesse all’80 percento nelle ultime due settimane, poiché alcuni fondi hanno riacquistato. Siamo dunque esposti alla più aggressiva speculazione finanziaria.

BlackRock dentro Leonardo

Intanto i big della finanza guardando con sempre maggiore interesse all’industria della difesa italiana. Leonardo è entrato subito nel mirino di BlackRock. La maggiore società di gestione di patrimoni del mondo, con oltre 10 mila miliardi di dollari in gestione, ha ottenuto lo scorso anno l’autorizzazione del governo italiano a detenere una partecipazione superiore al 3% del capitale nel gruppo industriale della difesa e aerospazio. L’interesse dei big della finanza americana per Leonardo ha beneficiato di una straordinaria congiuntura in Borsa negli ultimi due anni e mezzo, come moltissime aziende internazionali che producono armi, in seguito alla guerra Russia-Ucraina e alla generalizzata corsa al riarmo. Secondo le notizie diffuse dall’agenzia Reuters e rilanciate dal Sole 24 ore, un documento inviato al Parlamento dall’ufficio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nell’ambito delle decisioni sul «golden power» detenuto dal governo nelle aziende strategiche, ha autorizzato il fondo di New York a oltrepassare il 3% del capitale della società controllata dal ministero dell’Economia. Il governo ha concesso l’autorizzazione a BlackRock il 18 settembre 2024, ponendo alcune condizioni non specificate. «Sono felice per l’interesse di BlackRock. È un riconoscimento importante», ha detto al tempo l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani. La notizia aveva fatto seguito alle indiscrezioni di colloqui tra l’ad di Sace, Alessandra Ricci, e Larry Fink, ad di BlackRock, pare senza un’informativa per Palazzo Chigi e per il Mef. 

La grande pesca nei conti correnti dei risparmiatori

Siccome non ci sono soldi pubblici a sufficienza e non ci sono investitori privati così pesanti (nonostante i tre Big della finanza mondiale), allora l’Europa pensa di aggirare l’ostacolo andando alla fonte della ricchezza. Siccome le fette della spesa pubblica sono sempre quelle, allora l’idea “geniale” della stratega von der Leyen è quella di andare a pescare nel grande mare del risparmio privato, ovvero delle famiglie. In tutte le sue recenti esternazioni, la presidente della Commissione europea ha detto che, per riarmarci, dobbiamo andare a cercare soldi nei conti correnti degli europei, che non sempre si fidano delle Borse e tengono fermi i loro risparmi (per chi se li può permettere) in banca in attesa di un qualche imprevisto famigliare da gestire o di tempi migliori. Per chi è a caccia di risorse quei depositi (si calcola 10 mila miliardi di euro) sono oro da far fruttare, indirizzandoli verso investimenti redditizi e agevolati da una nuova fiscalità di favore con il vincolo rigido della destinazione in acquisti degli armamenti necessari per difenderci dal nemico. E infatti in questi ultimi mesi i titoli che volano sono quelli legati all’industria della difesa.

Anche i fondi pensione si armano?

Come segnala l’agenzia Bloomberg, anche parecchi fondi pensione europei hanno deciso di rivedere le loro politiche di esclusione dei produttori di armi dai possibili investimenti. La cosa piuttosto comica è che tra le motivazioni non vengono mai citati i lauti profitti attesi, ma ci si giustifica affermando che la finanza si mette al servizio del piano di riarmo europeo. Ad esempio il più grande fondo pensione europeo, Stichting Pensioenfonds ABP, che raccoglie i contributi degli insegnanti olandesi e di altri settori dei lavoratori pubblici, ha fatto sapere di avere già importanti investimenti nell’industria delle armi, ma di essere pronto anche ad aumentarli in supporto al piano Ue. Il fondo danese Pfa Pension, che gestisce circa 120 miliardi di euro, afferma che il consiglio di amministrazione sta lavorando alla rimozione anche del divieto di investire in gruppi che producono componenti per le armi nucleari. L’AkademikerPension danese, con 20 miliardi gestiti, ha a sua volta avviato le procedure autorizzative per accrescere l’esposizione sui produttori di armi, persino verso quelli che costruiscono i cosiddetti ordigni controversi (mine antiuomo, munizioni a grappolo, armi chimiche e biologiche, frammenti non rilevabili, fosforo bianco, armi laser accecanti e uranio impoverito). E qui in Italia? Il Fattoquotidiano.it ha chiesto ad alcuni dei più importanti protagonisti del settore della previdenza integrativa quale sia il loro orientamento. Cometa, uno dei più grandi fondi di categoria, che raccoglie il denaro dei lavoratori del settore metalmeccanico, fa sapere di essere dotato di una procedura per garantire il rispetto della Legge 9 dicembre 2021. La legge contrasta il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo. Si tratta ora di capire come si orienteranno anche tutti gli altri fondi pensioni di matrice sindacale e che cosa decideranno i gestori sugli altri investimenti “armati”.

Una riconversione industriale alla rovescia

Intanto sta succedendo un fenomeno che non ci saremmo mai aspettati. Almeno non noi che abbiamo sognato e ci siamo battuti per la riconversione di una parte delle industrie belliche in aziende civili. Il piano italiano per salvare l’industria automobilistica passerà dalla produzione di sempre meno auto e sempre più armi. Può sembrare un paradosso, ma è questa la direzione che il governo Meloni intende seguire in risposta alla crisi che da mesi attraversa il comparto dell’automotive. Il primo a parlarne in modo esplicito è stato il ministro delle Imprese, Adolfo Urso. “È in atto una nuova rivoluzione industriale che dobbiamo governare. L’auto non potrà avere in futuro gli stessi volumi produttivi”. Che fine faranno le centinaia di aziende italiane che oggi lavorano nell’indotto dell’automotive? Per sopravvivere, suggerisce Urso, potrebbero convertire la loro produzione e mettersi al servizio dell’industria della difesa.

In attesa di leggere il piano di politiche industriali a cui sta lavorando il governo, Urso ha già rivelato una serie di prime iniziative che sembrano muoversi proprio nell’ottica della riconversione industriale degli stabilimenti di auto. Innanzitutto, ha annunciato che il governo non rinnoverà più l’ecobonus su scala nazionale, ossia il sistema di incentivi per l’acquisto di automobili. In Parlamento contro Urso si sono fatti sentire soprattutto il Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi-Sinistra: “Con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro il ministro Urso sta pensando a un piano di riconversione che non sarebbe altro che la pietra tombale per la nostra economia e il settore dell’automotive. Parlano di riconversione, ma quella che vogliono è un’economia di guerra”. (Open, 17 marzo 2025)

Elkann: auto e armi non sono in alternativa

Di eventuale riconversione ha parlato anche lo scorso 19 marzo, John Elkann, presidente di Stellantis, che è stato ascoltato dalle Commissioni riunite delle Attività produttive di Camera e Senato. Il suo è stato un resoconto di parte e alquanto furbo. Ha affermato che senza Stellantis la produzione dell’auto in Italia sarebbe scomparsa (dimenticando però che da l’azienda ha sempre osteggiato la possibilità dell’ingresso in Italia di un altro produttore e tutte le sovvenzioni di Stato di cui ha beneficiato). Ha poi ribadito la centralità dell’Italia confermando il piano per l’Europa presentato 17 dicembre 2024 presso il Mimit. Anche se poi è noto a tutti che i 2 miliardi di euro di investimenti sugli stabilimenti italiani non garantiscono la piena occupazione come invece assicurato nel momento in cui l’azienda riceveva nel 2017 un prestito garantito dallo Stato italiano. Per Elkann la sopravvivenza della Fiat/Stelantis “non è un fatto scontato, considerato che meno dell’1% delle aziende fondate all’inizio del Novecento risulta ancora in vita”. Ma quale futuro si prospetta? “Il futuro dell’auto e quindi di Stellantis non è l’industria bellica”. “Usa e Cina ci insegnano che si possono avere una industria bellica e una industria dell’auto e non è necessario fare una scelta”. In ogni caso sarà l’Europa a decidere dove allocare gli investimenti nella Difesa. Tradotto: pronti a obbedire e combattere.

Il governatore Panetta: meglio i treni dei carri armati

Invitato a Bologna al convegno “Pace e prosperità in un mondo frammentato”, organizzato dal Centro San Domenico e dalla Fondazione Centesimus Annus, il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, si è espresso molto chiaramente sia sulla guerra sia soprattutto sull’economia di guerra. “Viviamo in tempi di guerre – ha detto – ma non bisogna confondere il giro d’affari generato dai conflitti con la crescita sana: lo sforzo bellico sostiene la domanda aggregata e può stimolare l’innovazione, ma distorcendone gravemente le finalità. I benefici economici sono però transitori e non eliminano la necessità di riconvertire l’economia una volta concluso il conflitto, anche nei paesi coinvolti che non abbiano subito danni diretti sul proprio territorio. L’alta inflazione e il crollo del Pil che spesso caratterizzano le fasi belliche sono i segni dei danni che i conflitti provocano al tessuto economico». Insomma, «la produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese. Lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi. Non a caso, negli anni trenta Keynes proponeva di incrementare massicciamente la spesa pubblica per investimenti come soluzione alla depressione economica Usa, suggerendo al presidente Roosevelt di concentrarsi sull’ammodernamento delle ferrovie. La guerra rappresenta dunque una forma di ‘sviluppo al contrario’ e non può generare prosperità”. (Sole 24 ore, 17 gennaio 2025)

Rosa Luxemburg e la Deutsche Bank

Abbiamo cominciato questa carrellata con una notizia storica, la concludiamo tornando a fine Ottocento. Nel suo famoso libello contro la guerra e contro il Partito socialdemocratico tedesco che scelse la via dell’interventismo e del riarmo, Rosa Luxemburg parla ad un certo punto dell’avventura coloniale tedesca in Turchia. Per la guerra quel Paese si doveva fare carico delle spese. “Con la modernizzazione dell’esercito – scrive Rosa Luxemburg – naturalmente nuovi pesanti oneri furono caricati sulle spalle del contadino turco, ma si aprono anche nuove splendide possibilità di affari per Krupp e le la Deutsche Bank. Contemporaneamente il militarismo turco divenne una dipendenza del militarismo tedesco-prussiano, il punto di appoggio della politica tedesca nel Mediterraneo e nell’Asia Minore” (La crisi della socialdemocrazia, PGRECO edizioni, 2023, p.62)

Tre domande finali

Prima. domanda che sorge a questo punto. Con questa virata sui sistemi d’armamento il grande progetto del New Green Deal, quello che avrebbe dovuto portare l’Europa al primo posto nella transizione ambientale mondiale, che fine ha fatto? 

Seconda. Ma è vero ciò che dice qualche maligno e cioè che i soldi per il riarmo per rendere l’Europa autonoma dagli Usa andranno a finire soprattutto negli Stati Uniti visto che rimangono loro tra i venditori di armi più importanti del mondo, insieme a India, Giappone, Canada, Corea del Sud, Turchia, Israele, Emirati Arabi Uniti? (la “consolazione” è vedere due aziende italiane nella top ten: Leonardo e Fincantieri, ma il grosso è altrove).

Terza. Ancora a proposito di autonomia e del futuro dell’Europa: perché nessuno indaga (a parte lodevoli eccezioni) sulla pervasività dei grandi Big della finanza americana nelle economie nazionali europee, Italia compresa?



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