Come sta reagendo alle sfide del digitale il territorio protagonista del boom degli anni’80 e’90? Ecco le storie di start-up e aziende storiche che hanno cambiato pelle:«Qui il 70% dei lavoratori ha la laurea»
I flaconi hi-tech che contenevano i vaccini contro il Covid? Li hanno fatti a Padova. E i primi droni a uso civile a ottenere l’ok dall’Enac? Progettati da una start up di Bolzano. E indovinate chi ha avuto l’idea di mettere a punto i condizionatori che raffreddano i giganteschi centri di calcolo dell’intelligenza artificiale. Indovinato, un’azienda veneta. Benvenuti nel Nordest che fa gli «schei» grazie alla digitalizzazione e alle sfide imposte dal futuro. Per carità, di aziende che si stanno mettendo al passo con la rivoluzione tecnologica ce ne sono ovunque in Italia ma è interessante raccontare come questo angolo della Penisola, protagonista dell’ultima rivoluzione industriale sta reagendo ai cambiamenti imposti all’industria manifatturiera.
Dove eravamo rimasti? Al Veneto degli anni ’80 e ’90 che si popolava di capannoni e diventava un caso studiato in tutto il mondo: imprenditori partiti dal nulla, con limitati mezzi economici e culturali, talvolta pittoreschi, ma che grazie a intuito e etica del lavoro diventavano leader mondiali in settori impensabili: chi nella produzione di veleno per topi, chi in reticolati per pollai, chi in forni per pizzerie. Fu l’ultimo caso di «ascensore sociale» della storia d’Italia. Come sta reagendo questo territorio alle sfide globali che in alcuni distretti italiani (vedi il caso di Fabriano) stanno provocando una desertificazione industriale?
Come sempre occorre partire dai numeri. Il rapporto «Imprese ICT 2024» curato da Istat ci dice che tra le aziende con almeno 10 addetti l’8,2% fa già ricorso a procedure di intelligenza artificiale. Un dato che colloca l’Italia al di sotto della media Ue dove alcuni Paesi toccano una media del 12%. Restringendo il campo al Nordest l’Osservatorio Industria 4.0 di Intesa Sanpaolo indica che il 75% delle aziende del Triveneto adotta ormai tecnologie digitali ma che solo un’impresa su 5, entro il 2025 ha in programma investimenti nella transizione green e digitale. Un quadro, insomma, in chiaroscuro.
E poi ci sono le storie individuali, quelle che ancora una volta raccontano di un territorio che ha nel Dna la cultura d’impresa. E volendo raccontarle, queste storie, c’è solo l’imbarazzo della scelta. L’anno scorso l’isola di Ischia ha sperimentato un trasporto di materiale sanitario (sangue e campioni biologici) via cielo da località remote verso gli ospedali. Il trasporto è stato eseguito da droni cargo ideati da Flyingbasket, azienda hi-tech con sede a Bolzano, «gioiellino» di 22 dipendenti proveniente da Italia, Germania, Spagna, Belgio e India. Una soluzione nuova per operazioni logistiche con appena 10 anni di vita alle spalle. I droni di Flyingbasket hanno completato anche il trasporto di materiale da alcune navi a una parco di turbine eoliche offshore in Danimarca.
Parliamo – in questo caso – di una realtà giovane, di una start up che nel giuro di un decennio ha consolidato il suo business. Ma la transizione verso l’industria del futuro ha investito anche aziende attive fin dal dopoguerra. Vimar è nata nel 1946 a Marostica (Vicenza) fabbricando interruttori per abitazioni. Oggi non solo produce articoli e applicazioni per la domotica per case e industrie ma si è lanciata anche in un progetto di sostenibilità che che ottimizza la qualità dei prodotti e riduce al minimo gli sprechi di materiale. Innovazione, dunque, ma anche attenzione alle nuove esigenze.
Ma come avvengono queste trasformazioni «viste dall’interno»? Vale la pena raccontare l’evoluzione di un caso singolo, la Hiref, gruppo della provincia di Padova che ha messo a punto sistemi di raffreddamento per i grandi centro di calcolo indispensabili all’Intelligenza artificiale. Una cosa che – banalmente – fino a una manciata di anni fa non esisteva. Alberto Salmistraro è il Ceo di Hiref: «Siamo partiti nel 2001 – racconta – come produttori di impianti di condizionamento tradizionali, una filiera molto radicata in Veneto. Negli anni è cresciuta la domanda da parte di industrie, banche, ospedali: ci siamo resi conto che stava esplodendo l’esigenza di elaborare e depositare un’infinità di dati».
Anche ciò che è di più immateriale, richiede uno spazio fisico ed è lì che si è buttata l’azienda padovana. «Era un problema di nicchia, è diventata una questione globale. Una questione a cui, con le nostre macchione abbiamo dato risposta». Dall’intuizione alla realtà, l’impresa ha dovuto letteralmente cambiare pelle. Come? «È finito il tempo in cui l’imprenditore si presentava al cliente col suo catalogo di prodotti -spiega Salmistraro – oggi l’approccio è: “Di cosa hai bisogno? Ti risolvo il problema”. Individuiamo un pertugio, e lì ci infiliamo». E questo ha comportato una rivoluzione anche nella «geografia umana» dell’azienda: «Il 70% dei nostri dipendenti è laureato e molti di loro si sono formati all’interno di Hiref».
A questo punto della narrazione è possibile mettere qualche punto fermo. Primo: nel Nordest – ma non solo – è tramontato il tempo dell’imprenditore «fai da te» che sbuca dal nulla. Secondo: per non essere travolti dal cambiamento occorre immaginare un trasferimento di conoscenze dai centri di ricerca al mondo della manifattura. Anche in questo caso in Veneto c’è chi si è portato avanti con il programma. È il caso di Inest, definito «una rete di interconnessione tra enti di ricerca pubblici e privati, orientata allo sviluppo di sinergie tra le molteplici vocazioni del territorio, attraverso l’utilizzo di tecnologie digitali e della transizione ecologica».
L’approdo finale del percorso, dunque, è il mondo delle università e della ricerca, che di questa seconda rivoluzione degli «schei» è diventata l’altra faccia della medaglia. Fabrizio Dughiero è il direttore del dipartimento di ingegneria industriale dell’università di Padova. Il docente è testimone privilegiato degli elementi di continuità e quelli di rottura del Veneto di ieri e di oggi: «Negli ultimi anni sembra che il Nordest abbia vissuto un boom del turismo, della filiera enogastronomica. In realtà la manifattura resta la voce di gran lunga più importante del pil. In Veneto registriamo un’impresa ogni 10 abitanti, dunque resiste lo spirito imprenditoriale di questo territorio». E questo è senza dubbio un elemento di continuità.
«Ma il tessuto economico locale – prosegue Dughiero – è composto in larga misura da imprese piccole e piccolissime dove resta basso il valore aggiunto dato da elementi che definiamo “intangibili”: innovazione, design, servizi. Col passare del tempo questo rischia di risultare un fattore di debolezza». La questione dunque è: come aiutare questa fascia di aziende con limitate capacità finanziarie e di capitale umano? «Il salto da compiere – spiega ancora il docente – è quello dal “made in Italy” al “made in science”, ampliare il valore aggiunto determinato dai “fattori intangibili”. C’è più bisogno non di semplici “business school” ma di scuole d’impresa dove contaminare sapere economico, tecnologico e anche umanistico perché è da quest’ultimo che scaturisce la creatività».
Ultimo elemento critico che Dughiero mette in evidenza: in Veneto resta basso il numero di start up. «Ma non servo “unicorni”, vale a dire imprese che hanno un immediato successo ma che vadano a supporto della manifattura già esistente». Dughiero cita l’intuizione di Giulio Buciuni, ricercatore al Trinity College di Dublino che studia l’Italia e le strategie per valorizzare il ruolo delle Pmi: «Lui parla di imprese “plug in”, vale a dire che innestano le loro conoscenze su realtà già esistenti dando spinta e forza per innovare».
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