Investimenti “sostenibili” nelle armi: il nuovo paradosso europeo


Dimenticate le foreste rigenerate, l’energia solare o l’innovazione nei trasporti a zero emissioni. La nuova frontiera degli investimenti sostenibili sono le armi. Secondo il ministro dell’Economia francese Eric Lombard, finanziare l’industria bellica sarebbe un «atto responsabile», in perfetto allineamento con i principi Esg (Environmental, social e governance).

Dietro questa apparente assurdità c’è un dibattito che la guerra in Ucraina ha reso più urgente: quali canali attivare per finanziare della difesa? Finora, tipicamente gli operatori della finanza sostenibile hanno escluso dal proprio perimetro di investimento settori “controversi” come il tabacco, l’alcool e, naturalmente, le armi. Tuttavia, con il riarmo in corso e il disimpegno degli Stati Uniti dalla difesa europea, alcune voci politiche e industriali vogliono cambiare la narrativa.

Cosa dicono in materia di armi le norme europee sugli investimenti sostenibili

Dal punto di vista legale, costituiscono un capitolo a sé le mine antipersona e le bombe a grappolo. Le vietano, rispettivamente, la Convenzione di Ottawa (1997) e la Convenzione di Oslo (2008). Varie giurisdizioni nazionali, tra cui l’Italia, vietano espressamente ogni forma di investimento e finanziamento a loro favore. Per il resto, le maglie delle normative sono piuttosto larghe.

Il regolamento Sfrd (Sustainable finance disclosure regulation) annovera l’esposizione verso le armi controverse tra i “principali impatti inversi” da segnalare. Non dice nulla, quindi, sulle armi convenzionali. La direttiva sul reporting di sostenibilità (Csrd) impone alle imprese di fare un’analisi di doppia materialità, rendicontando sia i propri impatti ambientali e sociali, sia le conseguenze che i fattori ambientali e sociali possono avere sul loro business. Entrambe impongono “solo” trasparenza, senza che ciò implichi esclusioni automatiche.

A definire formalmente quali attività possono essere considerate come sostenibili e quali no è la tassonomia. Quella ambientale, l’unica che ad oggi è entrata in vigore, sancisce che un’attività può dirsi sostenibile se contribuisce ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali individuati (mitigazione, adattamento, economia circolare ecc.) senza danneggiare significativamente nessuno degli altri. Come ha precisato la ex-commissaria per i Mercati e i servizi finanziari Mairead McGuinness, un’azienda della difesa può anche non gestire attività che contribuiscono attivamente alla tutela ambientale. Ma, tecnicamente, ciò non la qualifica come insostenibile.

Dovrebbe essere molto più difficile aggirare il tema dell’impatto delle armi all’interno della tassonomia sociale, basata sulle stesse logiche ma riferita – appunto – alla dimensione sociale, la S di Esg. Al momento, però, ancora non c’è. Esiste soltanto un rapporto che un gruppo di esperti ha pubblicato a febbraio 2022 e che dovrebbe fungere da base per la proposta della Commissione. Da allora, però, il percorso si è arenato.

Il no della finanza etica al concetto di armi sostenibili

Secondo i dati di Morningstar citati dalla testata francese Les Echos, i fondi sostenibili definiti come tali negli articoli 8 e 9 della regolamentazione Ue gestiscono oltre 6.100 miliardi di euro. Pari al 60% del totale degli asset europei. Una cifra enorme che potrebbe rivelarsi preziosa per l’industria della difesa, alla ricerca di finanziamenti dopo l’annuncio del piano Rearm Europe da parte della Commissione europea. Al momento, i fondi Esg detengono solo lo 0,52% del loro portafoglio nel settore aerospaziale e della difesa, contro l’1,34% degli altri fondi. Un gap che i sostenitori dell’integrazione della difesa nella finanza sostenibile vogliono colmare.

Non tutti, però, vedono di buon occhio questa apertura. Netto il rifiuto di Triodos IM, il gestore patrimoniale che fa capo all’omonima banca, tra le fondatrici della coalizione europea Gabv (Global alliance for banking on values). «Il settore della difesa e dell’industria bellica non è in alcun modo compatibile con la finanza sostenibile», sostiene Eric Simonnet, responsabile delle relazioni con gli investitori di Triodos, intervistato da Les Echos. Il problema, secondo Simonnet, non è tanto il finanziamento della difesa in sé, ma il rischio di far passare per “sostenibile” un settore che per sua natura non lo è. Dopo anni di scandali legati al greenwashing, l’industria finanziaria vuole evitare ulteriori ambiguità.

Eppure, il ministro dell’Economia francese Eric Lombard e quello delle Forze Armate Sébastien Lecornu continuano a martellare su un’altra narrazione. «Produrre armi non è una cosa sporca», «capitalismo e patriottismo sono indissociabili», e contrapporre difesa e responsabilità sarebbe «un’idea sbagliata». Questi i messaggi che stanno diffondendo, offrendo al resto d’Europa un comodo alibi. Ma mentre si gioca con le parole, il governo francese ha già stanziato 1,7 miliardi di euro di fondi pubblici. Puntando a mobilitarne 5 nel breve periodo.

Il piano francese per il riarmo: fondi pubblici e risparmi privati

Cifre «non sufficienti», come ha già dichiarato Nicolas Dufourcq, direttore generale di Bpifrance, banca d’investimenti controllata dalla Cassa depositi francese. Per soddisfare la domanda pubblica di 17,5 miliardi di euro all’anno prevista fino al 2030 dalla Legge di programmazione militare, le aziende del settore della difesa devono rafforzarsi. Necessiteranno di 1-3 miliardi di euro di capitale proprio nei prossimi cinque anni, oltre a dover colmare l’attuale deficit di 2 miliardi di euro.

Bpifrance consentirà ai risparmiatori di investire in un fondo per il riarmo con una quota minima di 500 euro, puntando a raccogliere 450 milioni nel breve termine. A questa iniziativa si affiancano quelle di soggetti quali Defacto, Sienna IM, Allianz, MDBA (che include l’italiana Leonardo) e fondi specializzati come Tikehau ed Eiréné. «Servono strumenti flessibili per rispondere ai bisogni urgenti di finanziamento», ha dichiarato Renaud Dumora, direttore generale di BNP Paribas.

Obbligazioni, conti deposito, cartolarizzazioni: così l’Europa vuole finanziare la difesa

A questa richiesta viene in aiuto la Commissione europea. Che sta lavorando a un piano ancora più ambizioso: mobilitare i 10mila miliardi di euro che giacciono nei conti correnti degli europei. Un’iniziativa che mira a rendere questi capitali disponibili per investimenti in qualsiasi titolo azionario o obbligazionario presente in Europa, nella logica di un mercato dei capitali sempre più fluido e deregolamentato.

A ciò si aggiungono l’iscrizione dei risparmiatori a piattaforme di investimento, una possibile (ulteriore) cartolarizzazione dei crediti bancari, la creazione di conti deposito, un allentamento dei requisiti prudenziali delle banche e delle assicurazioni e una più complessiva defiscalizzazione. Il tutto con un obiettivo dichiarato: incanalare questo enorme flusso di denaro verso il riarmo europeo, ovvero verso le aziende produttrici di armi.

Anche la Bei verso il riarmo: la svolta della finanza pubblica europea

Dal canto suo, la Banca Europea per gli Investimenti (Bei), su pressione di Francia e Germania, ha deciso di destinare un miliardo di euro alla liquidità delle aziende della difesa. Ovvero la metà del suo budget dedicato al settore. E potranno seguire altre misure di questo tipo. D’altronde, il Parlamento europeo, nel votare con favore il Rearm Europe, aveva invitato la Bei (e altre istituzioni finanziarie internazionali e banche private in Europa) a investire più attivamente nell’industria europea della difesa.

Come riportato espressamente nell’art.82 della Risoluzione datata 12 marzo 2025 sul Libro bianco sul futuro della difesa europea, il Parlamento chiede «una revisione urgente della politica della Bei in materia di prestiti e un’immediata flessibilità che permetta di abolire le attuali restrizioni al finanziamento della difesa, nonché la possibilità di valutare l’emissione di debito a destinazione vincolata per finanziare progetti nel settore della sicurezza e della difesa».

Quando tutto è sostenibile, niente lo è più davvero

Dunque, ricapitoliamo. Un fondo che esclude l’industria bellica è accusato di avere «una visione datata» (parole sempre di Lombard-Lecornu), mentre chi investe in armi può finalmente definirsi paladino dello sviluppo sostenibile. Forse il prossimo passo sarà certificare le munizioni come carbon neutral? Ironia a parte, se il concetto di sostenibilità può essere stiracchiato fino a includere le spese militari, allora la parola stessa rischia di perdere ogni significato.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link