Nella tarda serata del 9 aprile, il presidente Trump ha sospeso l’entrata in vigore degli altissimi dazi generalizzati che aveva annunciato una settimana prima (il 2 aprile). Sono invece rimasti in vigore i dazi universali del 10% e quelli settoriali su prodotti specifici (25% su acciaio, alluminio, auto, ecc.). Nel frattempo, a seguito di una fortissima escalation consumata nel giro di pochi giorni, verranno applicati dazi del 145% alla Cina che, a sua volta, li ha portati al 125% sugli USA. Questa è la situazione al momento in cui si scrive.
È verosimile ipotizzare che il governo americano intenda ora aprire delle trattative con i vari paesi minacciati, al fine di concludere accordi differenziati. Nonostante l’assoluta imprevedibilità dell’Amministrazione americana e la forte incertezza sulle prossime evoluzioni, si delineano comunque un rischiosissimo scenario di guerra commerciale globale, a partire dallo scontro diretto con la Cina che prelude a pericoli ancor più gravi all’orizzonte, e la possibile fine dell’era della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni.
Il banco di prova per l’UE e l’Italia sarà decisivo, anche perché, è ormai entrato in profonda crisi il modello di stampo mercantilistico – incentrato sulle esportazioni e sulla restrizione della domanda interna – interpretato in primo luogo dalla Germania e dai c.d. “paesi frugali” e poi imposto – attraverso la logica dell’austerità – a tutta l’Unione europea. Un modello che ha prodotto uno straordinario surplus commerciale del nostro continente, ma al contempo un peggioramento dei sistemi di welfare e delle condizioni di vita e di lavoro della grande maggioranza delle persone.
Gli obiettivi dell’Amministrazione Trump
In un’economia statunitense caratterizzata dal “doppio deficit” (fiscale e commerciale), gli obiettivi dell’Amministrazione Trump sono:
- tentare per l’ennesima volta (ci aveva già provato lo stesso Trump nel primo mandato senza successo; e poi Biden, mantenendo i dazi precedenti ma utilizzando soprattutto gli incentivi fiscali) di riequilibrare il cronico disavanzo commerciale USA verso il resto del mondo (pari a 918 mld di dollari nel 2024), reso possibile grazie all’egemonia monetaria fondata sul “privilegio” del dollaro: l’unica moneta che a livello internazionale è unità di conto (i listini delle materie prime sono in dollari), mezzo di scambio (le transazioni internazionali si effettuano in dollari) e riserva di valore (i risparmi considerati più sicuri sono quelli in dollari);
- scardinare definitivamente il sistema di regole multilaterali sul libero scambio (WTO), che ha retto la globalizzazione dagli anni ‘90, per affermare un modello di rapporti commerciali di tipo bilaterale – paese per paese – da posizione di forza, basandosi su una strategia di “divide et impera”;
- soprattutto, ricostruire la base industriale USA: re-internalizzando la produzione attualmente all’estero delle industrie americane e costringendo quelle estere a localizzare la loro negli USA per avere accesso senza dazi a quel mercato, garantendogli energia a basso costo, riduzione delle imposte e un’ampia deregolamentazione (questi ultimi due punti sono stati avanzati anche dal cancelliere tedesco in pectore, per restituire competitività all’economia della Germania);
- scommettere sul fatto che le imprese che esportano verso gli USA – per evitare di perdere quote di mercato – assorbano l’aumento dei dazi (senza traslarlo sui prezzi al consumo) e quindi che ci sia un aumento delle entrate del bilancio pubblico USA, magari per coprire i tagli alle imposte a favore di corporations e ceti benestanti decisi da Trump.
L’impatto reale e potenziale:
- primo effetto, un’immediata svalutazione del dollaro (in particolare verso l’euro) che amplifica l’effetto dei dazi rendendo ancor più costose le merci estere negli USA, in particolare quelle europee, e più competitivo l’export americano;
- forti tensioni nei mercati finanziari che – anche per effetto di evidenti manovre speculative – hanno causato un caotico susseguirsi di crolli e successivi rimbalzi delle borse;
- una probabile prospettiva di blocco degli investimenti, di aumento dell’inflazione USA (prezzi), delle pressioni sulla FED (politica monetaria), di stagnazione se non di vera e propria recessione dell’economia statunitense;
- forti tensioni commerciali e conflitti geopolitici, che rappresenterebbero un ulteriore freno alla crescita globale;
- per quanto riguarda il nostro paese, Banca d’Italia ha tagliato le stime del PIL che si attesterebbe a +0,6% nel 2025, +0,8% nel 2026, +0,7% nel 2027: si riduce, quindi, ulteriormente una crescita già anemica in uno scenario che tiene solo parzialmente conto dei dazi, ma non considera l’impatto delle eventuali ritorsioni e l’andamento dei mercati. Tutto questo potrebbe abbassare ulteriormente il PIL e determinare addirittura una recessione. Nel Documento di Finanza Pubblica 2025 (il nuovo DEF), il Governo ha dimezzato la crescita (+0,6% nel 2025) rispetto alle precedenti previsioni d’autunno (+1,2%). Questo risultato non è l’esito né dei dazi, né degli scenari incerti che si sono aperti (che, a detta dello stesso ministro Giorgetti, non sono stati presi in considerazione per l’aggiornamento delle previsioni), bensì delle fallimentari politiche economiche implementate in questi anni dall’esecutivo;
- conseguenze diversificate sull’economia reale italiana: per settore produttivo (i più colpiti: automotive, meccanica, farmaceutica, sistema moda, alimentare, chimica) e per regioni/aree territoriali (in ordine di esposizione al mercato USA: Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto e Piemonte in primis);
- colpo definitivo al modello economico europeo che – comprimendo la domanda interna del mercato più grande e più ricco del mondo (a colpi di austerità e di svalutazione competitiva del lavoro) – ha favorito la minoranza delle imprese esportatrici, mettendo in difficoltà tutte le altre legate al mercato interno. Un modello che era già in crisi strutturale per: 1) la guerra in Ucraina e il venir meno dei beni energetici a basso costo dalla Russia; 2) la progressiva riduzione del mercato di sbocco cinese; 3) e i rilevanti ritardi accumulati su innovazione, ricerca e sviluppo (vedi automotive ed economia digitale).
Possibile strategia di risposta europea/italiana
(il commercio internazionale, compresi i dazi, a norma dei trattati è di competenza esclusiva dell’UE):
- nel caso in cui le trattative con l’Amministrazione americana – che certamente si apriranno nei prossimi giorni – non avessero esito positivo, l’opzione di reagire imponendo contro-dazi generalizzati non sarebbe comunque una scelta opportuna, perché causerebbe un’escalation della guerra commerciale pericolosa per l’Europa – con ulteriori effetti recessivi e un aumento dell’inflazione – ma soprattutto inutile: puntare a tornare alla situazione precedente è infatti assolutamente irrealistico;
- una risposta mirata potrebbe essere indirizzata verso i servizi digitali e finanziari americani (che, contrariamente alle merci, garantiscono a Washington un significativo surplus commerciale a danno dell’Europa che è stato pari a 109 miliardi di euro nel 2023) e in particolare nei confronti delle Big tech americane, che oltretutto rappresentano ormai un pericolo tangibile per le nostre democrazie, a causa del controllo dei dati e della capacità di condizionare l’opinione pubblica. E gli strumenti per agire in questa direzione sono: la tassazione dei profitti realizzati in UE (al di là della Global Minimum Tax), la regolamentazione più stringente ma, soprattutto, il rilancio degli investimenti continentali su innovazione, ricerca e sviluppo per ricostruire una maggiore autonomia industriale e tecnologica dell’Europa;
- misure nazionali (la Spagna ha già annunciato un intervento da 14 mld) ma soprattutto europee (modello SURE):
1) di sostegno dei settori più colpiti (ma non con trasferimenti a pioggia e senza condizionalità; e nemmeno con la distrazione di fondi PNRR e Coesione come chiesto da Confindustria e annunciato dalla Presidente del consiglio);
2) e di protezione del lavoro: a tutela sia dei livelli occupazionali (ammortizzatori), che dei redditi (dalla restituzione del fiscal drag alla detassazione dei rinnovi dei CCNL); - misure e strumenti di carattere straordinario per impedire le delocalizzazioni delle imprese e l’afflusso di capitali e investimenti europei verso gli USA (molto preoccupanti, a questo proposito, gli annunci di alcuni industriali italiani e di qualche partecipata pubblica), che aggraverebbero ulteriormente la deindustrializzazione del vecchio continente (in particolare del nostro Paese, che vede un calo della produzione industriale da 25 mesi consecutivi). In questo senso le misure attivabili a livello europeo vanno dal controllo della circolazione dei capitali a forme di disincentivo/sanzione per chi delocalizza come l’esclusione dagli appalti e, più in generale, dai sussidi/benefici/incentivi pubblici, la tassazione dei profitti rimpatriati, imposte patrimoniali per coloro spostano la produzione negli USA;
- completare il mercato unico europeo (almeno tra i 20 paesi dell’eurozona): dal superamento di barriere, vincoli tariffari, normativi e meccanismi fiscali sino alla realizzazione di un vero mercato unico dell’energia, con l’obiettivo di ridurre i costi energetici (nettamente più alti che in USA), accelerare lo sviluppo delle fonti rinnovabili e rafforzare l’autonomia e la sicurezza energetica continentale;
- diversificazione dell’export e rafforzamento dei rapporti commerciali e geopolitici con il resto del mondo (Cina, Brics, Asia), anche per evitare il rischio che la sovracapacità produttiva asiatica, in mancanza dello sbocco americano, si riversi tutta in Europa;
- respingere la pressione americana volta a far aumentare gli acquisti europei di beni energetici (GNL) e sistemi d’arma USA, anche attraverso la pretesa di aumentare il vincolo di spesa minima per la difesa dei paesi NATO dall’attuale 2% al 5% ipotizzato dall’Amministrazione Trump.
Ma soprattutto, è necessaria una profonda ridefinizione della strategia economica e industriale dell’UE, che abbandoni definitivamente le politiche di austerità e il mercantilismo, liberando lo straordinario potenziale inespresso della domanda interna europea con politiche comuni più espansive (modello NextGenEU):
1) per finanziare investimenti pubblici (e stimolare quelli privati) su infrastrutture, conoscenza, salute e beni comuni;
2) mettere in campo politiche industriali non per l’economia di guerra, la difesa, il riarmo, ma per la conversione ecologica, la transizione digitale e l’innovazione tecnologica del nostro sistema produttivo;
3) aumentare i salari reali – anche per rilanciare i consumi e la domanda aggregata – che in Italia vuol dire innanzitutto rinnovare con questo obiettivo tutti i CCNL pubblici e privati (i dazi non possono rappresentare l’ennesimo alibi delle nostre controparti per negare/ritardare i rinnovi).
Siamo a un passaggio cruciale, che sta ridisegnando il mondo (anche al netto delle ulteriori e possibili marce indietro e/o accelerazioni da parte dell’Amministrazione americana, la cui inaffidabilità – perfino sulle proprie scelte – è ormai acclarata).
Un mondo inevitabilmente multipolare, in cui la sicurezza (intesa in senso lato) o è condivisa o non è, e questo, per quanto riguarda l’Europa, vale innanzitutto per la guerra in Ucraina – che va risolta al più presto – e per la necessità, in prospettiva, di ridefinire un nuovo sistema di regole e commercio globale più equilibrato, più condiviso e più utile per tutti.
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