Governo al banco della riforma dei porti. Pasini (Confindustria Lombardia): “Ue difenda aziende da invasione cinese”. Orlandi: “ITER operativo nel 2033”. La rassegna Energia
Il Governo si prepara ad affrontare la prova della tanto attesa riforma dei porti. La bozza di schema prevede un nuovo modello di governance degli scali, con al vertice una società pubblica che coordinerà l’attività di programmazione di tutti i porti italiani riuniti nelle autorità di sistema. Le Ats si incaricheranno della gestione operativa dei singoli porti. Il nuovo sistema scatterà dopo la conclusione delle nomine dei presidenti delle Autorità portuali. Una partita non semplice perché 7 Ats su 16 sono attualmente affidate a commissari, altre 3 hanno presidenti il cui mandato è scaduto. Bruxelles deve agire per difendere le aziende europee dall’invasione del Made in China. A dirlo è Giuseppe Pasini, patron di Feralpi e presidente di Confindustria Lombardia in un’intervista a La Repubblica Affari & Finanza. Bisogna vigilare affinché le quote di importazione previste dal sistema esistente non vengano superate e lavorare perché siano migliorate le misure di salvaguardia del mercato interno, secondo Pasini. Il progetto nucleare ITER è in linea con la tabella di marcia e i costi sono sotto controllo. Se tutto procede di questo passo, nel 2033 dovrebbe funzionare, secondo Sergio Orlandi, ingegnere nucleare e vice direttore generale di ITER. La rassegna Energia.
GOVERNO AL BANCO DELLA RIFORMA DEI PORTI
“Una società pubblica al vertice, con il compito di coordinare l’attività di programmazione di tutti i porti italiani riuniti nelle autorità di sistema. Lo schema è pronto e presto, sotto forma di bozza, verrà consegnato a Palazzo Chigi. A dieci anni dalla riforma voluta dall’allora ministro dei Trasporti Graziano Delrio, il governo si prepara a innovare il modello di governance degli scali, portando al centro la regia e affidando la gestione operativa ai singoli porti. Una formula che scatterà ufficialmente fra pochi giorni, quando il viceministro dei Trasporti, il leghista Edoardo Rixi a cui il titolare del dicastero Matteo Salvini ha delegato la materia portuale, concluderà il suo giro per i porti italiani. (…) Mai era accaduto che così tante autorità finissero nelle mani di commissari chiamati a gestirle. Su sedici enti, infatti, sette sono quelli affidati a commissari. E altri tre sono con presidenti il cui mandato è scaduto e ora sono in proroga. Se si considera che i sei ancora guidati da un presidente sono quasi tutti in scadenza, si capisce come la macchina portuale italiana in assenza di una solida governance rischi semplicemente di fermarsi. Ora il ministero ha finalmente avviato gli iter di nomina partendo dall’authority del Mar Ligure Occidentale (Genova e Savona) per cui Salvini ha scelto Matteo Paroli, attuale segretario generale dell’authority del Mar Tirreno Settentrionale (Livorno e Piombino). (…) Numeri alla mano, la portualità italiana lo scorso anno ha movimentato poco meno di mezzo miliardo di tonnellate di merce, quasi 12 milioni di teu (unità di misura del container pari a un pezzo da venti piedi) e 73 milioni di passeggeri su traghetti e navi da crociera. Segno di una vitalità che ora deve trovare riscontro anche nelle nuove norme, chiamate a legittimare la trasformazione dei porti da punti di carico e scarico della merce in piattaforme logistiche. Per farlo, sarà però necessario far dialogare fra loro le varie modalità di trasporto: mare, ferro, gomma, aria”, si legge su La Repubblica Affari & Finanza.
“Il solo porto di Rotterdam movimenta oggi più di tutti i porti italiani messi insieme. Servono quindi collegamenti ferroviari veloci su cui far correre i container scaricati dalle navi, come da tempo si propone di fare il corridoio europeo che da Genova punta proprio verso Rotterdam. La soluzione che il governo intende adottare, da questo punto di vista, passa anche attraverso le Zls, zone logistiche semplificate all’interno delle quali dare valore aggiunto alla merce, consentendole di muoversi senza interruzioni fra le varie modalità di trasporto, sostenendo gli investimenti delle imprese con agevolazioni fiscali. L’obiettivo è di chiudere tutte le cesure infrastrutturali che oggi rallentano la corsa dei porti, unendo le banchine alle aree retroportuali interne. (…) Un tema, quello della riduzione delle emissioni nocive prodotte dall’attività armatoriale e portuale, che porta con sé quello altrettanto delicato del rapporto fra città e porto. Per questo, i nuovi piani regolatori portuali dovranno tenere conto anche delle valutazioni delle amministrazioni comunali per quanto riguarda le aree di confine che nelle portualità storiche come Genova, Napoli e Trieste toccano tutto il territorio. Sarà quindi una riforma profonda, fondamentale nelle intenzioni dell’esecutivo anche per attrarre nuove risorse internazionali in grado di affiancare una mano pubblica che fa sempre più fatica a intervenire con risorse proprie. (…) Lo Stato, che sui moli interviene attraverso le 16 authority, potrà comunque drenare risorse innalzando la quota di imposte sulla merce in importazione che oggi vengono raccolte e girate agli enti in percentuali minime. Aumentando solo di pochi punti questa quota, le authority potrebbero intervenire direttamente con investimenti e la partecipazione a società di scopo per promuovere l’attività intermodale e logistica, come già avviene nei grandi porti del Nord Europa”, continua il giornale.
PASINI (CONFINDUSTRIA LOMBARDIA): “INVASIONE MADE IN CHINA, UE DIFENDA AZIENDE”
“Il braccio di ferro commerciale avviato dagli Stati Uniti di Donald Trump ha vissuto nuovi colpi di scena negli ultimi giorni, tra tariffe reciproche annunciate e poi messe nel congelatore e l’obiettivo di colpire sempre più duro la Cina con dazi che si arrampicano al 145 per cento. «C’era da aspettarsi una simile aggressività dal presidente americano», ragiona Giuseppe Pasini, patron di Feralpi e presidente di Confindustria Lombardia. Dalla tolda di comando del gruppo dell’acciaio da 2,4 milioni di tonnellate prodotte e oltre 1,7 miliardi di euro di ricavi (consuntivo 2023), Pasini vede un «chiaro disegno». (…) «Gli Stati Uniti hanno disperso la loro manifattura, a differenza dell’Europa che ne ha mantenuta una viva, variegata, con eccellenze. Trump vuole recuperare quel che negli ultimi decenni è sparito. Ma non è semplice». (…) il manifatturiero richiede competenze, formazione, un intero sistema che dagli Its alle Università parla con le aziende. E persone: le nostre fabbriche sono una grande palestra di inclusione. Come pensa di riempirle, con la sua politica sull’immigrazione? Potrei sbagliarmi, ma non è semplice». Su alluminio e acciaio, i dazi al 25 per cento, i primi introdotti da febbraio, restano in piedi: è preoccupato? «Non sono determinanti per la nostra industria: l’anno scorso l’Italia ha esportato verso gli Usa 350mila tonnellate di acciaio, su una produzione di 19 milioni. Il vero problema è un altro…». «I dazi che gli Stati Uniti hanno applicato alla Cina. Il rischio è che portino i prodotti dell’acciaio cinese a riversarsi sul nostro mercato. Già oggi le importazioni esistono, il pericolo è che diventino un fiume in piena. (…) Già oggi esiste un sistema di quote di importazione: è assolutamente prioritario vigilare perché queste quote non vengano superate. Bisogna lavorare perché siano migliorate le misure di salvaguardia del mercato interno»”, si legge su La Repubblica Affari & Finanza.
“Sul mercato americano, quando Trump ha annunciato che avrebbe introdotto i dazi sull’acciaio: nell’arco di dieci, quindici giorni il costo dell’acciaio negli Usa era aumentato del 20-30 per cento, a seconda delle categorie. Alla fine è il consumatore finale a pagare di più. La reazione delle Borse di questi giorni, il loro totale nervosismo, lo testimoniano». (…) «Sono preoccupato anche perché le aziende si aspettavano un chiaro percorso di discesa dei tassi, che avrebbe sostenuto gli investimenti in una fase di rallentamento. Ora tutto è in discussione e programmare è davvero difficile». (…) «Gli imprenditori hanno sempre guardato alle alternative. Ma per andarci davvero non basta sentirsi dire “‘andate”’. L’Europa ha un enorme problema che è dato dai costi dell’energia: finché non sarà risolto, come si può pensare di esser competitivi in mercati che hanno costi irrisori? Per industrie di base, come la nostra, è impossibile. Ma a pagare il conto sono anche le famiglie». (…) A proposito di ambiente, la Ue sembra in una fase di cambiamento del registro…«Gli obiettivi possono restare, quel che abbiamo sempre sostenuto è che i tempi devono essere adeguati a un contesto geopolitico completamente diverso. I dazi, ma anche la guerra in Ucraina che è ancora lì da risolvere, hanno sconvolto il panorama: dobbiamo arrivare agli obiettivi, ma con le aziende sane e salve»”, continua il giornale.
ORLANDI (ITER): “ULTIMO PASSAGGIO PRIMA DI APPLICAZIONE PRATICA”
“Ricreare il sole sulla Terra. Un sogno. Un «veicolo di pace» che lega nazioni oggi più che mai in contrapposizione: Cina, Unione europea, India, Giappone, Corea, Russia e Stati Uniti. Ma anche un’ambizione da cui potrà scaturire l’energia del futuro: infinita, pulita e a costo zero. Per tutti. Siamo a Cadarache, sud della Francia, a poca distanza da Aix-en-Provence. Qui sorge il più grande centro di ricerca e sviluppo sull’energia nucleare. È il progetto Iter, finanziato con 20 miliardi di euro per arrivare entro il 2033 (questo è l’obiettivo) a realizzare la fusione. Un terreno di oltre 5 mila mq che la Francia ha donato all’unione di Paesi che lo gestisce. Un sito di ricerca, ma anche industriale dove lavorano circa 2 mila persone e decine di aziende italiane (non solo le grandi come Ansaldo, pure Pmi come la Delta-Ti di Rivoli), riunite in consorzi. Ed è a trazione tricolore, nonostante convivano 33 nazionalità diverse. «È l’ultimo passaggio di studio prima dell’applicazione pratica. Qui lavorano i cervelli più brillanti del settore, nessuno lascerebbe questo progetto. E la guida è italiana» racconta Sergio Orlandi, ingegnere nucleare e vice direttore generale. (…) A stupire è anche che questo è forse ormai l’unico progetto in cui lavorano fianco al fianco persone di Stati divisi dalla guerra e dalla geopolitica: si notano in mensa e – soprattutto – per il caschetto con la bandiera della nazionalità. Ucraini al fianco dei russi, cinesi e statunitensi. «Quando c’è la scienza, l’unica bandiera che conta è la cultura. La capacità di lavorare insieme educa le persone ed educa alla pace» evidenzia Orlandi. «Con la crisi energetica – è sicuro Biginelli – verrà tutto accelerato». Ogni nazionalità ha una tecnologia chiave e un metodo di lavoro che porta in dote. «Mentre per la fissione nucleare è stata trovata subito una soluzione nel 1942, con la fusione il percorso è più complicato ma è molto più ambizioso perché da una parte si genera il calore spaccando il nucleo, dall’altra si vogliono avvicinare due nuclei e vincere le forze di repulsione e nel momento in cui si ha un’aggregazione di massa, si libera del calore”, si legge su La Stampa.
“Il problema è che bisogna portare la temperatura a un livello tale da vincere la forza di repulsione: a 150 milioni di gradi, più della temperatura che c’è sul sole, non c’è nessun materiale che regga. Quindi bisogna generare delle forze magnetiche di confinamento che sono del valore di 10-12 tesla: per capire la difficoltà basta pensare che nel quotidiano si gestiscono campi magnetici dell’ordine dei millitesla» spiega Orlandi. (…) La differenza con la fissione è anche lo spegnimento, che poi è causa dei disastri: «Per questi impianti, una volta spenti non c’è nessuna potenza residua da evacuare». Iter nasce come progetto sperimentale nel 2006 con la firma di sette partner internazionali tutti azionisti al 9,9% mentre l’Ue è azionista al 45%. Nel 2022 però c’è stato un grosso intoppo: uno dei nove settori nel “cuore” dove avviene la fusione, il tokamak, è stato montato nonostante fosse difettoso e i problemi si sono allargati anche agli altri settori. «A quel punto la situazione di Iter era diventata veramente critica perché i costi erano esplosi e l’impianto era finito ma la macchina era indisponibile». Ma proprio allora è arrivato Barabaschi come direttore e Orlandi, che già ci lavorava e conosceva bene la situazione, è stato chiamato come vice. «Abbiamo riparato quel settore e tutti gli altri. Oggi la situazione è stata totalmente rigenerata. Stiamo rispettando la tabella di marcia. In più abbiamo modificato tutti i contratti per tenere sotto controllo i costi. Siamo in condizione di poter dire che, se andrà tutto bene, avremo tutti i settori in posizione nella prima metà del 2026. Tra la fine del 2031 e metà 2032 dovrebbe essere tutto pronto» sostiene Orlandi (che in passato è stato anche direttore di Ansaldo). A quel punto mancherà solo un ultimo passaggio di sicurezza e con il 2033 dovrebbe funzionare. (…) «Abbiamo continuato a lavorare con la Russia anche dopo lo scoppio della guerra, la cooperazione è totale. Hanno pagato regolarmente tutto o direttamente o, quando le nostre banche non hanno potuto ricevere più soldi, attraverso la Cina e l’India. La diagnostica del sito, ad esempio, è tutta russa». Qualche preoccupazione in più arriva dalle politiche di Trump che «in qualche modo può creare problemi nei finanziamenti. Non tutti negli Stati Uniti sono a favore di investire in un progetto internazionale, c’è chi spinge per programmi privati. Credo ci potrà essere qualche problema di finanziamento, quindi, ma solo nel lungo termine perché per ora tutti i pagamenti sono rispettati». Inoltre è fiducioso nel rilancio del nucleare in Italia ma «serve un’autorità di sicurezza qualificata”, continua il giornale.
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