Quis custodiet custodies? “Chi sorveglia il custode” è il famoso detto che rappresenta l’essenza della democrazia: chi sorveglia che il governo non abusi del proprio potere o violi diritti tutelati dalla Costituzione? La risposta ovvia è la separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario.
Ma se un governo fa un uso – o abusa – di poteri esecutivi che esulano il vaglio dell’organo legislativo e che danneggiano l’economia intera, a chi spetta il compito di “sorvegliarlo”? Mi è tornato in mente questo interrogativo guardando al diluvio di executive order con cui Trump sta attuando la sua politica tariffaria, andando ben oltre le prerogative presidenziali del Trade Act del 1974.
Lo strumento sbagliato
L’obiettivo di Trump – re-industrializzare gli Stati Uniti – è per certi versi condivisibili, ma è ormai chiaro che le tariffe siano lo strumento sbagliato: anche mantenendole al livello attuale (senza gli aumenti sospesi per 90 giorni) la tariffa media salirebbe dal 2,3 per cento a oltre il 22, con un impatto equivalente a un aumento della tassazione di 800 miliardi.
Ma non si tratta solo del rincaro dei costi dovuto alle tariffe: c’è anche il danno provocato dall’incertezza su quale sarà il livello finale delle tariffe (minacciate, annunciate, sospese, reintrodotte); dall’incompetenza dell’amministrazione, viste l’approssimazione e improvvisazione delle decisioni; e dal loro uso distorto, usate come clava per make great deals, fare grandi affari a scapito di altri paesi, persino quelli storicamente alleati.
Le tariffe hanno aumentato i timori di recessione; i capitali fuggono indebolendo il dollaro (la peggiore svalutazione nei primi 100 giorni di un presidente dai tempi di Nixon); i venti di crisi e i timori di inflazione hanno spinto al rialzo i tassi sul debito pubblico, rincarando il costo dei mutui, e mettendo in crisi il settore immobiliare (a marzo, il peggior calo di case vendute degli ultimi anni); e la fiducia dei consumatori è scesa a uno dei livelli più bassi degli ultimi 40 anni.
Il “sorvegliante” naturale è il cittadino che vota: nei primi 100 giorni il tasso di approvazione di Trump sull’economia è calato più rapidamente che in ogni altra presidenza negli ultimi 20 anni (peggio anche della sua prima presidenza), con un tasso di disapprovazione oggi al 54 per cento, contro il 41 per cento di approvazione. Senza un’inversione di rotta, è dunque probabile che Trump perda il controllo di Senato e Congresso alle prossime elezioni di mid-term nel novembre 2026 (ammesso che accetti il risultato elettorale): sarà però troppo tardi per evitare una recessione.
Instabilità insostenibile
Al momento, l’unico vero “sorvegliante” è stato il mercato finanziario, che ha punito Trump vendendo dollari e titoli di Stato americani, e tagliato le stime sugli utili aziendali, causando un aumento della volatilità delle borse a livelli da crisi finanziaria.
Una tale instabilità non è sostenibile: o Trump cambia rotta sulla politica tariffaria, rendendola prevedibile, in modo tale che le imprese possano pianificare gli investimenti e adattare la l’organizzazione della produzione al nuovo regime tariffario, oppure l’aumento del rischio di recessione e la caduta dei consumi porteranno probabilmente a nuovi forti ribassi delle borse. Non sorprende dunque che banchieri, grandi investitori, e il mondo finanziario – anche quelli che avevano sostenuto l’elezione di Trump per miopia o opportunismo – abbiano criticato apertamente la politica tariffaria del presidente.
Manca però una presa di posizione pubblica dal mondo imprenditoriale: eppure sono proprio le imprese a essere maggiormente colpite dalle tariffe: la “tassa” da 800 miliardi dovuta alle tariffe supera infatti i 500 miliardi di imposte complessivamente pagate dalle imprese americane.
In un mondo dove le imprese hanno decentralizzato e delocalizzato la propria attività in lunghe filiere produttive, e le scorte ridotte al minimo con il just in time, le tariffe e l’incertezza legata alla loro applicazione costituiscono non solo un costo che incide sui margini, ma aumentano il rischio degli investimenti e riducono l’efficienza creando colli di bottiglia, disfunzioni nella logistica, ritardi nelle consegne, e scarsità di beni o componenti. Molte catene della grande distribuzione temono scaffali vuoti, come domostra il silenzioso pellegrinaggio dei loro amministratori delegati da Trump.
Inoltre, un aumento della produzione interna richiede un maggior consumo di energia, ma la rete elettrica americana è obsoleta e frammentata, i tempi di costruzione di nuove centrali sono lunghi e i prezzi delle turbine a gas, così come delle apparecchiature elettriche, sta già subendo forti rialzi. L’industria americana nelle rinnovabili dipende in modo cruciale dalla Cina: il 54 per cento dei pannelli solari esportati nel mondo e il 50 per cento delle batterie al litio sono cinesi. Le tariffe aggraveranno quindi l’aumento già prevedibile del costo dell’energia.
La Federal Express di rifiuta di trasportare pacchi di valore inferiore agli 800 dollari perché il nuovo regime tariffario ha reso eccessivamente onerosi gli adempimenti amministrativi delle pratiche doganali: è solo un esempio di come l’autarchia aumenti i costi di trasporto e logistici.
Disparità tra concorrenti
Le tariffe poi creano disparità tra aziende concorrenti come nel caso di Coca Cola e Pepsi: la prima produce infatti il concentrato alla base della bibita negli Stati Uniti, la seconda in Irlanda, ed è quindi penalizzata dalle tariffe. Entrambe poi sono colpite dai dazi sull’alluminio, così come i produttori di birra, dato che l’amministrazione Trump ha esteso la misura anche alle lattine.
La guerra commerciale rischia di danneggiare enormemente a un’azienda leader come Apple in quanto 150 dei suoi 187 fornitori hanno siti di produzione in Cina, colpita da tariffe proibitive, come anche il Vietnam, dove Apple ha trasferito alcune produzioni, e India dove aveva pianificato di delocalizzarne altre.
Ipotizzare di spostare la produzione di 2,5 milioni di iPhone negli Stati Uniti è pura utopia per i costi stratosferici e i tempi insostenibili che questo comporterebbe. Anche il settore sanitario è a rischio: 90 per cento dei farmaci genetici e 60 dei vaccini economici sono prodotti in India e Cina; come importati sono molte apparecchiature mediche.
L’integrazione del settore tecnologico rende inattuabile ogni ipotesi di reindustrializzazione americana: gli Stati Uniti dominano la progettazione dei semiconduttori, con una quota di mercato del 96 per cento, ma Taiwan ha il 95 della loro produzione, la Cina il 90 dei minerali critici e magneti necessari per i beni del mondo digitale, e il Giappone il 56 dei wafer di silicio alla base dei semiconduttori.
Come ritorsione per le tariffe al 145 per cento la Cina ha bloccato le commesse di aerei Boeing delle linee aeree locali, che però avrà ripercussioni negative sull’attività produttiva di entrambi i paesi: l’aereo prodotto dalla cinese Comac, che nelle intenzioni del Governo dovrebbe rompere il duopolio Boeing-Airbus, dipende infatti in modo cruciale dall’industria americana: i motori sono forniti della GE Aerospace, avionica, carrelli e freni dalla Honeywell, e altre componenti da Rtx e Parker Hannifin.
Redditività affossata
Le tariffe di Trump rischiano dunque di affossare la redditività, la produttività e in ultima analisi la capacità di investire e crescere proprio di quella industria americana che vorrebbe rilanciare.
Come ha osservato il Financial Times, è sorprendente che gli amministratori delegati delle grandi società non si siano ancora ancora esposti in modo congiunto per denunciare apertamente i danni duraturi che Trump rischia di infliggere all’economia americana. Forse per paura di ritorsioni, forse tacciono perché sperano in un taglio delle imposte societarie, forse ognuno conta sulle proprie entrature per ottenere un trattamento preferenziale.
Ma quando è in gioco l’interesse nazionale, anche la classe imprenditoriale dovrebbe agire da “sorvegliante” del governo. Vale per gli Stati Uniti, come per ogni democrazia.
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